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Era il 1999 e mentre il mondo cominciava a interrogarsi sulle conseguenze apocalittiche del Millennium Bug (di fatto non avvenne niente, ma forse avrei preferito che almeno il computer di Grillo avesse subito un qualche tipo di attacco), Fabio Fazio conduceva la 49esima edizione del Festival di Sanremo affiancato da Laetitia Casta e dal premio Nobel Renato Dulbecco. Sì, avete letto bene, un premio Nobel della medicina ha co-condotto un’edizione del Festival.

Forse basterebbe questo per dimostrare quanto il Festival di Sanremo, giunto quest’anno al suo 69esimo anno di vita, sia uno degli spettacoli più incredibili, inverosimili, inspiegabili – eppure bellissimo – della nostra tv. Ma che dico, dell’intero universo.

Ma torniamo a quell’edizione. Le cronache dell’epoca di certo non ebbero da discutere su questo improbabile trio di conduttori, quanto sul fatto che il direttore d’orchestra Fio Zanotti dirigeva sul palco una cantante unta da capo a piedi e con un perizoma ben in vista (sono ancora lontani i tempi di Belen e la farfallina). Quella cantante era Anna Oxa, oggi Oxarte, prima che scappasse dall’Italia per motivi di sicurezza, destinata a vincere con una canzone, Senza Pietà, che avremmo cantato tutti al karaoke negli anni a venire.

Ecco, questo è stato senza dubbio il momento in cui ho capito che il Festival di Sanremo sarebbe diventato una delle mie più grandi ossessioni. Quell’appuntamento annuale che avrei atteso con ansia, come i miei coetanei attendevano la finale di Champions League o la partita decisiva del campionato. E poco importava se all’epoca avessi poco più di dieci anni e il Tv Sorrisi e Canzoni lo leggevano mia nonna e mia madre dal parrucchiere per consultare la guida tv a fine pagina. Avevo deciso che avrei seguito quello spettacolo televisivo, dall’inspiegabile durata di 5 giorni e con una media totale di venti ore di diretta (escludendo ovviamente il DopoFestival, altro format inspiegabilmente underrated), come una liturgia pagana.

Così mi attrezzavo del necessario per affrontare la kermesse: una serie di fogli strappati da vari quaderni dovrei avrei appuntato i miei giudizi ben incasellati in una tabella – oggi è più facile, c’è Excel o Twitter (giudizi chiaramente pilotati dai miei gusti dell’epoca, perché per me la Tatangelo era sempre la migliore e gridai allo scandalo quando le Lollipop si classificarono penultime); la copia ormai lisa dell’edizione di Tv e Sorrisi Canzoni, quella con tutti i cantanti in copertina ovviamente, per seguire i testi e valutare che nessuno sbagliasse o saltasse qualche parola. E un posto davanti alla tv ben studiato, per avere almeno la stessa visuale di cui gode la Parietti ogni anno all’Ariston.

Quel ragazzino non è cambiato molto da allora. Così come non è cambiato il Festival con tutte le sue contraddizioni e le sue logiche anti-tv, anti-tempo, anti-tutto. Con le sue brutte canzoni, che diventano tormentoni. Con gli scandali e le dichiarazioni shock che precedono ogni edizione (crediamo ancora che in tv non sia tutto scritto?). Con la quota Amici di Maria, le promozioni delle fiction rai, le famiglie italiane, gli ospiti stranieri, le fighe in abiti alta moda, Beppe Vessicchio, e l’edizione sanremese di Domenica In dove ci fosse una volta in cui uno dei cantanti si esibisca dal vivo.

Un mix di trash nazional-popolare così perfetto che ogni anno ci porta a parlarne per giorni e settimane e a convertire anche i più irriducibili antisanremisti, che comunque lo commenteranno e lo guarderanno di soppiatto tra un piatto di quinoa e una copia di Internazionale ancora intonsa.

Perché Sanremo è Sanremo. E quest’anno c’è di nuovo la Tatangelo.

Articolo scritto da Maurizio Binetti

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