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Ma come. Prima siamo costretti a trasportare il nostro lavoro dall’ufficio (o negozio, redazione, quello che è) a casa, trasformando il salotto in uno studio improvvisato. Adesso che ci abbiamo preso gusto ci dicono che anche basta con lo smart working. La bizzarra affermazione è uscita proprio dalla bocca del nostro sindaco, Beppe Sala. “Un consiglio mi sento di darlo, io sono molto contento del fatto che il lockdown ci abbia insegnato lo smart working e ne ho fatto ampio uso in Comune”, ha detto il primo cittadino nel consueto video social. “Ora è il momento di tornare a lavorare, perché l’effetto grotta per cui siamo a casa e prendiamo lo stipendio ha i suoi pericoli”.

Una dichiarazione, questa, che non poteva non suscitare polemiche. Detta così, caro Beppe, sembra che lo smart working sia un cazzeggio ben pagato invece che il solito lavoro svolto semplicemente da casa. Da queste parole pare che lavorare da casa sia una specie di vacanza. Allora perché alcune big company del tech come Facebook e Twitter hanno deciso che i propri dipendenti potranno (se vorranno) continuare con lo smart working anche a fine pandemia? Proprio loro che sono così avanti, pensa.

Il commento di Sala, come dicevamo, non è passato inosservato. “Un’affermazione che mi ha stupito“, ha dichiarato la ministra della Pubblica amministrazione Fabiana Dadone, a Zapping su Radio1 Rai”. È come se avesse detto che i dipendenti della sua amministrazione non avessero lavorato in queste settimane”. Perplessità anche dall’assessora al Lavoro Cristina Tajani: “No, non è stata una lunga vacanza, ma cosa diventerà il lavoro agile dipende dalle scelte che facciamo oggi. È un invito al dibattito anche quello lanciato oggi dal Sindaco Sala, sebbene non ne condivida appieno alcuni passaggi”.

Insomma, smart working sì o no? Guardiamo il lato positivo: sicuramente per molte persone rappresenta un grande risparmio di tempo (e di ore trascorse in tangenziale o in metro) e di denaro (benzina, biglietti, pranzo fuori). E di questi tempi, risparmiare qualcosa non è certo un male. Seconda cosa: riuscire a essere produttivi restando a casa, magari con le distrazioni di figli disturbanti e partner nevrotici, dovrebbe essere considerato una skill più che una facilitazione. Una roba per cui dovrebbero pure premiarci, altroché.

Ma gli italiani che ne pensano? Secondo un recente sondaggio di ANRA, Associazione Nazionale dei Risk Manager, e Aon, gruppo di consulenza dei rischi e delle risorse umane, per il 47% il lavoro da remoto è un bene perché consente di gestire con più autonomia i propri orari di lavoro mentre per il 43% porta un migliore equilibrio tra vita privata e professionale. Chiaro che c’è pure molta gente che non vede l’ora di tornare in ufficio e soffre alcuni contro dello smart working. Per il 48% la mancanza di separazione tra ambiente lavorativo e domestico e soprattutto la grande difficoltà nel limitare le ore dedicate al lavoro (58%). 

Stando ad un altro sondaggio, questa volta di InfoJobs, il 27% degli italiani ha sofferto la lontananza dai colleghi mentre un italiano su dieci ha sentito la mancanza di quel piacere di vestirsi, sistemarsi, truccarsi e uscire di casa che il Coronavirus gli ha tolto.

Insomma, riassumiamo un po’ la situazione. Lo smart working ha salvato il culo a molte aziende durante la quarantena e sta continuando a farlo pure adesso. A molti piace, ad altri meno, c’è chi vorrebbe continuare così e chi sente il bisogno di tornare in ufficio. Ci sta. Ma certo non si può dire che “adesso è ora di tornare a lavorare”. E che cazzo abbiamo fatto fino ad ora?

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